L’esplosione dell’export cinese negli ultimi vent’anni non è certo un caso, bensì il frutto di un preciso disegno strategico del “Dragone”: accaparrarsi un’importante quota del mercato globale diventandone l’attore predominante. Il raggiungimento di quest’obiettivo è stato agevolato da precondizioni favorevoli ma, allo stesso tempo, fortemente perseguito dalle autorità cinesi attraverso lungimiranti politiche di incentivazione degli scambi internazionali.
La disponibilità di manodopera a basso costo, tipica dei Paesi invia di Sviluppo è stato senz’altro un presupposto fondamentale per la crescita cinese, ulteriormente favorita dal gran numero di popolazione in età lavorativa (attorno ai 750 milioni di persone). Ciò implicava che, agli inizi degli Anni Duemila, il costo della manodopera corrispondesse ad un ventesimo del costo del lavoro dei paesi delle economie avanzate. Questo fattore, unitamente alle politiche statali di attrazione delle imprese estere, ha fatto sì che la Cina catalizzasse un sempre un maggior numero di investimenti.
Le delocalizzazioni in Cina sono state così sfruttate appieno dal Paese: non solo come mera occasione di occupazione per le masse, ma per apprendere quel “know-how” che ha consentito di incrementare la base tecnologica, conferendo al Paese l’odierno ruolo centrale nelle filiere internazionali. L’upgrade tecnologico è stato inoltre favorito dalla bilancia commerciale perennemente in positivo, e quindi dal preponderante export, che ha permesso grandi accumuli di valuta straniera pregiata; successivamente investita in macchinari ed impianti ad alta tecnologia al fine di rendere competitiva l’industria manifatturiera nazionale, non solo in termini economici ma anche qualitativi.
I fatti dimostrano che, ad oggi, non possiamo più considerare la Cina semplicemente come la “fabbrica del mondo”, a basso valore aggiunto, capace di tenere bassi i costi del prodotto finito grazie a economie di scala, sfruttamento dei lavoratori e contributi statali. Va preso atto del cambiamento del paradigma, ovvero del salto di qualità tecnologico e qualitativo a fronte del mantenimento di costi fissi e di input più che ragionevoli, tale da spaventare le principali economie mondiali in termini di concorrenza. A testimonianza di ciò, nel grafico sottostante vengono sintetizzati gli investimenti in Ricerca e Sviluppo di USA – UE – CINA negli ultimi decenni.
Si noti come la curva di colore blu, rappresentante l’aggregato investimenti in R&D della Cina, negli ultimi due decenni abbia colmato il gap con l’UE sino a raggiungerla e superarla. A dimostrazione di ciò, le domande di brevetti registrate in Cina nel 2021 sono state pari a 1,6 milioni, superiori a quelle di USA ed Europa (rispettivamente 591mila e 358mila) e sono in costante crescita (+14% annuo dal 2010 al 2021, contro il +2% negli Stati Uniti). Inoltre, la Cina detiene una quota maggioritaria di domande di brevetto depositate tra il 2018 e il 2020 nei settori delle tecnologie energetiche (tra cui solare, eolico, geotermico, idroelettrico). Più in generale, si può dedurre dalla tabella B sottostante come la Cina, grazie anche al suo sistema al controllo centrale dell’economia, abbia veicolato gli investimenti in settori strategici e profittevoli nel medio-lungo periodo, perchè a loro volta generatori di ulteriori filiere ad alto valore aggiunto, complementari e sussidiarie a queste.
In 37 dei 44 ambiti tecnologici critici, la Cina ha raggiunto una leadership nella ricerca. Una ricerca dell’Australian Strategic Policy Institute (ASPI) rivela infatti che la Cina ha costruito le basi per posizionarsi come superpotenza scientifica e tecnologica leader a livello mondiale, stabilendo un vantaggio sorprendente. Ad alto rischio di monopolio sono in particolare il settore dei materiali e produzioni avanzate, intelligenza artificiale, informatica e telecomunicazioni; energia ed ambiente.
Altra importante leva della competitività cinese è stata, ed è tuttora, l’economia di scala. Si parla di economie di scala quando, all’aumentare della produzione di un bene, si riesce a ridurre il costo unitario dello stesso. Le economie di scala comportano che imprese grandi, o settori grandi siano più efficienti, cioè producano con costi unitari più bassi.
Nei primi decenni del boom cinese questo fattore è stato favorito anche dalla dimensione della popolazione cinese: sfruttare le commesse estere ricevute per soddisfare successivamente anche una colossale domanda interna (aumento volumi di fatturato più che proporzionali rispetto alle commesse estere ricevute) o viceversa, sfruttare i propri volumi di produzione nel mercato interno per poi proporsi all’estero con prezzi enormemente competitivi (vedasi il pericolo per l’industria europea dell’automotive rappresentato dal mercato delle auto elettriche cinesi). Siamo così molto spesso di fronte a fabbriche di enormi dimensioni o di interi distretti industriali, che acquistano volumi di input (materie prime e semilavorati) molto importanti. Tali volumi implicano un elevato potere negoziale da parte di questi soggetti, che saranno così in grado di ottenere costi di produzione nettamente inferiori rispetto ad aziende di piccole e medie dimensioni tipiche della realtà italiana . Questo si rifletterà ovviamente sul costo finale del prodotto. Oltre al beneficio negoziale, tali distretti industriali presentano ulteriori vantaggi indiretti: facile reperimento di manodopera già qualificata, e soprattutto i cosiddetti fenomeni di spillover (condivisione di idee e metodologie ) creando un interscambio di informazioni all’interno del settore merceologico che incrementerà il vantaggio competitivo del distretto nel suo complesso. Secondo questo schema quindi la fabbrica X fornirà i beni strumentali alla produzione, la fabbrica Y l’imballaggio, la fabbrica W materie prime e componentistica, e la fabbrica Z assemblerà il tutto e consegnerà il prodotto finito. Risultato finale è che, ad esempio, in una singola città della Cina, è concentrata una quota importante della produzione mondiale di articoli stampaggio plastica e gomma mentre, in un’altra città, ci si è specializzati in strumenti per la meccanica di precisione, e così via… Per questi motivi, il fatto di concentrare la produzione di un settore in una zona ridurrà i costi di produzione del settore, anche se la dimensione media delle imprese rimane (rispetto agli standard cinesi) piccola. In Cina sono presenti circa 1.000 città industriali di mono-produzione: ognuna di esse è specializzata nella produzione di un solo tipo di prodotto. L’elemento distintivo è che tutte queste fabbriche si trovano a due passi l’una dall’altra.
L’effetto delle economie di scala inoltre influenza positivamente anche l’aspetto dei trasporti logistici del commercio nazionale ed internazionale: concentrare un settore merceologico in un’area precisa consentirà la creazione di una supply chain specializzata, dedicata e quindi rapida; mentre navi container caratterizzate da una sempre maggior capacità riusciranno ad ammortizzare i costi di export grazie all’ingente numero di tonnellate trasportate.
Anche da questo punto di vista, la Cina si è dimostrata lungimirante e, nell’allora 2013, ha annunciato l’iniziativa della “Belt and Road”, meglio conosciuta in Italia come “La Nuova Via della Seta“. Tale progetto ha lo scopo di creare un ponte logistico intermodale tra Asia ed Europa per facilitare ulteriormente i commerci. Il piano si divide in due macro-obiettivi logistici: quello via terra e via mare. Quello via terra prevede di collegare principalmente su rotaia le regioni occidentali della Cina all’Europa, attraverso i Paesi dell’Asia Centrale. Dal punto di vista marittimo, il progetto prevede la costruzione di nuovi porti ed il miglioramento delle capacità logistiche e di stoccaggio di porti già esistenti, lungo la via che dallo stretto di Malacca o dalla Baia di Bengala porta, attraverso l’Oceano Indiano ed il Mar Rosso, al Mediterraneo. Si stima entro il 2030 questo progetto influirà positivamente sul commercio globale incrementandolo del 5%*3, mentre l’ultimazione progetto è prevista per il 2049.
Infine un ultimo paio di considerazioni: in Cina si ha a che fare con un mercato di enorme dimensione non sono dal lato del consumo bensì anche dal lato dei produttori, avremo quindi a che fare con un’ampia offerta di fornitori in concorrenza tra loro. Tale competizione, di cui i produttori stessi sono ben consapevoli, ci consentirà di essere in una discreta posizione di forza nella trattativa, potendo confrontare e fare leva su diverse offerte e gradi di qualità del prodotto. In questo senso, un altro aspetto da non sottovalutare è il momento storico-economico nel quale ci troviamo: per la prima volta da molti anni la domanda interna cinese ha subito un brusco rallentamento. Questo significa per molte imprese manifatturiere locali una diminuzione delle commesse o uno stock di magazzino invenduto. Anche questo fattore contribuirà la controparte cinese ad essere più flessibile nella trattativa.